Bamar Poe Loki, nato il 14.04.2024 da Kintamani ...
Il Sacro di Birmania è indubbiamente una delle razze più amate che ci siano nel panorama delle razze riconosciute, con un carattere affettuoso, equilibrato, adatto alla vita in famiglia e indubbiamente di una bellezza unica e affascinante.
È un gatto di taglia media con una struttura robusta, un corpo leggermente allungato e massiccio con zampe corte e forti. Ha una testa arrotondata con orecchie piuttosto piccole e occhi leggermente ovali di un blu profondo, magnetici e sognanti. Il pelo è da semilungo a lungo, con una coda folta, di media lunghezza, che ha la caratteristica forma a pennacchio. La caratteristica colorazione color point, cioè "colorato" solo nelle "punte", ovvero estremità delle zampe, muso, orecchie, coda. Il gene point o siamese ("cscs" in genetica, della famiglia del gene albino) è un gene recessivo termosensibile che inibisce il colore del pelo nelle parti calde del corpo e lo fa apparire solo nelle punte, dove la temperatura corporea è leggermente inferiore.
Nel birmano sono riconosciuti 40 colori (seal, chocolate, red e i rispettivi diluiti blue, lilac e cream, e tortie, sia tabby che non, e recentemente anche i pattern smoke e silver), che si vedono bene sulle punte mentre il resto del mantello è sbiadito e ha un colore che varia dal color magnolia al guscio d'uovo a seconda del colore base e dell'età del gatto.
Ma la caratteristica speciale dei Birmani è data dagli elegantissimi guantini bianchi.
Il guantaggio risiede sia nei piedi anteriori che in quelli posteriori. I guanti devono essere di un bianco assolutamente puro e devono arrivare massimo all'articolazione tra dita e metacarpi, in maniera simmetrica fra quelli davanti e dietro, meglio se fra tutti e quattro. Il birmano non deve avere altre traccia di bianco a parte i piedini (infatti il mantello non è bianco ma "sbiadito" dal gene siamese). Il gene "G" dei guantini del birmano è stato scoperto nel 2010 da ricercatori della UC Davis in California, ma la sua posizione è dovuta a una poligenia per cui non sempre i birmani hanno dei guantini perfetti (ma ovviamente sono bellissimi lo stesso).
Il Birmano ha una storia vera, molto interessante, ma anche una splendida leggenda a cui deve l'appellativo di "sacro".
L'origine infatti si perde e sfuma in una antica storia che narra di cento gatti allevati nel tempio di Lao-Tsun nell'antica Birmania. Questa leggenda, che ha avuto un largo successo ed è riportata in tutti i siti che parlano di Birmani, è stata pubblicata per la prima volta nell'opera di Marcel Renay "Nos amis les chats" (ed.Grasset, Ginevra, 1947) che a sua volta si rifà ad un articolo pubblicato nel 1926 su Minerva (rivista femminile quindicinale edita dal 1925 al 1938) da Fernand Méry, veterinario a cui era stata raccontata dalla scrittrice Marcelle Adam, segretaria del sindacato degli scrittori francesi, alla quale, a sua volta, era stata narrata da una misteriosa avventuriera di nome Madame Leotardi.
Il racconto spiega il perché dell'appellativo "sacro" che è dato a questi gatti: il progenitore della specie, in Birmania, sarebbe stato il custode dell'anima del suo compagno umano deceduto fino a che questa non è ascesa, con lui, verso il paradiso.
La narratrice racconta che nel tempio dei monaci Kittah, costruito alle pendici del monte Lugh, il gran sacerdote Mun-hà passava la sua piissima vita in sacra meditazione. Quella che segue è la traduzione di quel racconto originale, leggermente diverso da come è comunemente riportato e contenente anche una maledizione che a noi piace intendere come un monito ad amare e rispettare questi affascinanti animali, che hanno, innegabilmente, un che di spirituale nello sguardo profondo e misterioso.
"Non ci fu un solo minuto, un solo sguardo, un unico pensiero della sua esistenza che non fosse consacrato all'adorazione, alla contemplazione e al pio servizio di Tsun-Kyanksé, la dea dagli occhi di zaffiro, colei che presiede alla trasmutazione delle anime, permettendo ai Kittah di rivivere in un animale sacro la durata della loro esistenza terrena prima di riprendere le sembianze della perfezione totale e sacra dei grandi sacerdoti. Vicino a lui, Mun-Hà, meditava Sinh, il suo caro oracolo, un gatto tutto bianco, i cui occhi erano gialli per il riflesso della barba dorata del suo maestro e del corpo d'oro della dea dagli occhi blu come il cielo. Sinh, il gatto consigliere, le cui orecchie, naso, coda e l'estremità delle zampe erano dello scuro colore della negra terra, simbolo della lordura e dell'impurità di tutto ciò che è terreno.
Ora avvenne che un giorno, in cui la luna malevola permise ai maledetti Phoum venuti dal Siam aborrito di avvicinarsi alle sacre mura del tempio, il gran sacerdote Mun-Hà, senza smettere di implorare il destino crudele, entrò dolcemente nella morte, con al fianco il suo gatto divino e sotto gli occhi e la disperazione di tutti i suoi kittah.
È allora che avvenne il miracolo unico della trasmutazione improvvisa: d'un tratto, Sinh salì sul trono d'oro, sulla testa del suo maestro caduto. Si inarcò su questa testa venerabile che, per la prima volta, non contemplava più la dea. Restò a suo turno con gli occhi fissati sulla statua eterna e allora si videro i peli erti della sua schiena bianca divenire improvvisamente giallo oro, e i suoi occhi divennero blu, immensi e profondi come quelli della dea. E mentre girava lentamente la testa verso la porta sud, le sue quattro zampe che toccavano la testa venerabile divennero di un bianco candido fino a dove erano affondati nella sacra seta delle vesti del gran sacerdote. Quando i suoi occhi si ritrassero dalla porta sud, i kittah obbedendo a quello sguardo imperativo, carico di durezza e di luce, si precipitarono per chiudere le pesanti porte di bronzo sul primo invasore. Il tempio fu così salvo della profanazione e dal saccheggio.
Sinh non aveva però lasciato il trono: restava immobile, gli occhi profondamente fissati in quelli della dea, e il settimo giorno morì così, misterioso e ieratico, portando verso Tsun-Kyanksé l'anima di Mun-Hà, troppo perfetta ormai per la terra.
E quando, sette giorni più tardi, i monaci erano riuniti a consulto davanti alla statua per decidere la successione di Mum-Hà, videro accorrere tutti i gatti del tempio. Erano tutti vestiti d'oro e guantati di bianco, tutti avevano mutato in zaffiro profondo il giallo dei loro occhi. E tutti, in silenzio, circondarono il più giovane dei kittah, designato così dagli antichi reincarnati per volontà della dea"
"E ora - precisa la narratrice - quando muore un gatto sacro del tempio di Lao -Tsun è l'anima di un kittah che riprende per sempre il suo posto nel paradiso di Song-Hio, il dio d'oro. Ma che la sfortuna ricada su colui che affretta la fine di uno di questi animali meravigliosi, anche se non l'ha voluto. Soffrirà i più crudeli tormenti fino a che non si acquieti l'anima in pena che ha turbato."
La realtà storica di questa razza in Europa e in Italia è quasi più misteriosa della sua leggenda. Sembra che l'origine europea di questi gatti risalga alla coppia arrivata d'oltremare nel 1918, portata dal miliardario americano Vanderbilt. Egli, durante una crociera in Oriente, riuscì ad acquistare a caro prezzo una coppia di Birmani forse rubati al tempio di Lao-Tsun dove erano allevati. Questa coppia fu data ad una certa Signora Thadde Hadisch, ma il maschio morì accidentalmente sulla nave e la femmina, Sita, fortunatamente gravida, diede alla luce una cucciolata nella quale vi era una bellissima femmina Poupée, nata al loro arrivo a Nizza. Poupée fu poi incrociata con un siamese e da lei è nata tutta la razza.
Un'altra fonte, invece racconta che nel 1919, furono il francese A. Pavie e l'inglese G. Russel che inviarono in Francia due dei rarissimi e preziosissimi gatti birmani regalati loro da monaci Kittah e da loro ritenuti sacri. Altre fonti parlano, più verosimilmente, di un gatto creato in Europa da abili allevatori francesi che avevano incrociato dei persiani colour point, gatti siamesi con lo spotting bianco sulle zampe e comuni gatti di casa a pelo lungo, selezionando poi i cuccioli fino ad ottenere i guantini bianchi tanto amati dagli aristocratici e dai ricchi borghesi dell'epoca.
Il birmano venne battezzato negli anni '50 "Sacro di Birmania" per distinguerlo ed evitare qualsiasi confusione con il Burmese (parola che indica in inglese l'abitante della Birmania).
Negli anni '60 in Francia questi gatti ebbero un vero boom di pubblico, persino l'amatissima attrice Romy Schneider ne possedeva un esemplare.
In Gran Bretagna la razza è stata riconosciuto nel 1966 e nel 1967 negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l'Italia, è stata Francamaria Gabriele, che ha riportato la razza in Italia nel 1979, anno in cui riuscì ad ottenere dagli allevatori francesi la prima coppia: Porthos de Tchao Pai e Paquita.
Da allora l'allevamento del Sacro della Birmania ha visto un interesse crescente fino a farne uno dei gatti più "alla moda" e ricercarti dal pubblico, cosa che purtroppo, se da una parte giova alla promozione della razza e incrementa gli studi su questi animali, dall'altro provoca un pullulare di commerci dagli scopi non sempre cristallini e disinteressati, come purtroppo succede spesso in molti campi dove il business prende il posto della passione e dello studio necessario ad un approccio serio e competente.
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